LA VITA QUOTIDIANA
DEI CANONICI REGOLARI

Prof. Giancarlo Andenna - Dal saggio "Da canonica regolare a parrocchia per massari e salariati" (secoli XII - XIX) - 1
 

Ma quale regola dei canonici regolari fu in uso presso la fondazione di San Giulio di Dulzago? e quale ordo fu osservato?, cioè quali prescrizioni e norme circa lo svolgimento liturgico e la celebrazione delle funzioni quotidiane furono in uso presso i canonici?

Giacchè non è rimasto alcun codice normativo e liturgico del XII secolo appartenente all'istituzione canonicale è impossibile formulare una risposta sicura.
Tuttavia si può supporre che la regola fosse la notissima "Regula Sancti Augustini", meglio nota come "Regula ad servos Dei", integrata anche dalla "Regula Sanctorum Patrum". Quest'ultima è un testo composito che cerca di trovare una conciliazione tra l'antica "Institutio Aquisgranensis", integrata anche dalla "Regula di Codregango di Metz", e le esperienze pauperistiche di tradizione evangelica e patristica, recepite attraverso una scelta antologica di brani di Agostino, Gregorio e Giuliano Pomerio.

Tuttavia la grande novità rispetto al testo carolingio di Aquisgrana fu l'assenza del capitolo che permetteva la proprietà privata dei canonici; la norma fu sostituita con un sermone di "De communi vita clericorum", in cui erano accentuate l'esigenza della povertà individuale del canonico regolare e la necessità di una vita in comune. Importante fu la disposizi one che proibiva al canonico di possedere beni propri e di conseguenza di fare testamento:

 
 

"Clericus in sociali vita non faciat testamentum nec habeat proprium".

 
 


Risulta al contrario più semplice conoscere le Costituzioni o Consuetudini attuate a Dulzago alla metà del Quattrocento al tempo del preposito Bassiano "secundum ordinem canonicorum regularium Sancti Augustini".

Le Costituzioni ordinavano una perfetta vita comune ed una totale povertà individuale, per la cui realizzazione era vietato ricevere o dare ad altri qualunque oggetto senza il permesso del priore. Inoltre i singoli canonici non potevano tenere nascosta alcuna cosa, nè potevano tenere su di sè del denaro, senza aver ricevuto il debito permesso dal superiore.
In relazione al vitto era mantenuta la consuetudine di astenersi in perpetuo da qualunque cibo a base di carne o con condimento ottenuto con grassi animali. I casuali ospiti della canonica erano tenuti ad uniformarsi a tale pratica.
Per gli ammalati, o per i canonici particolarmente gracili, era possibile essere dispensati dalla norma, ma avrebbero dovuto mangiare o nell'infermeria o ad una tavola separata nel comune refettorio. Ampio spazio era poi dato, come nella "Regula ad servos Dei", al digiuno, che era prescritto dalla festa dell'Esaltazione della Croce (14 settembre) a Pasqua, tutti i giorni, eccettuate le domeniche e le feste solenni.
Durante il digiuno del periodo dell'Avvento era possibile prendere ai pasti solo cibi di stretto magro. Nel periodo in cui non si osservava il digiuno era permesso mangiare latticini e formaggi. Al venerdì santo tutti si accontentavano di pane e di frutta. Solo il priore poteva per carità mitigare il rigore del digiuno per i canonici in viaggio, per quelli di malferma salute e per gli ammalati.
Importanti erano pure le norme prescritte che fissavano il comportamento durante la refezione: suonato il mezzogiorno, tutti i canonici entravano nel refettorio, in cui l'ebdomadario, o sacerdote di turno per quella settimana, benediceva la mensa ed intonava l'Ave Maria, recitata ad alta voce da ciascuno in piedi davanti al proprio posto. Poi, al segno del priore, tutti si mettevano a sedere e, senza toccare cibo, ascoltavano la lettura di brani sacri. Al termine iniziava sempre in silenzio la refezione: solo il priore poteva parlare, ma per spiegare i passi della Sacra Scrittura appena letti, mentre i canonici mangiavano in silenzio e con gli occhi bassi.
Terminato il pasto tutti sorgevano dalla mensa e recitavano le preghiere di ringraziamento.

Uno degli impegni fondamentali del canonico era la recita comunitaria dell'Ufficio Divino, diviso in otto ore canoniche, una notturna e sette diurne.
L 'ora notturna, o Mattutino, vedeva i canonici scendere dal dormitorio comune e recarsi in chiesa, nel coro, che era posto dinanzi al presbiterio.
La notte, ammantata di tenebre e di silenzio, era propizia alle meditazioni sacre, ma insieme costituiva un pericolo per la possibilit à delle tentazioni del maligno. I canonici, con la recita degli inni, intendevano scuotere il loro torpore spirituale per elevarsi verso l'eterna luce di Dio e nel contempo si impegnavano a meditare sulla caducità delle cose terrene e sull'importanza di un diretto rapporto con l'Altissimo. Le preghiere notturne si concludevano con la recita del "Te Deum", a ringraziamento dei benefici offerti dal Signore; in quel momento i canon ici ritornavano nel dormitorio comune e si stendevano sul letto, formato da un pagliericcio, da un numero di coperte variabile secondo le stagioni e da due cuscini, uno di paglia e uno di piume.
Il riposo durava solo alcune ore, sino all' aurora, quando la campana invitava gli ecclesiastici a recarsi di nuovo in chiesa per la recita corale della prima ora diurna, le Lodi; la luce appena sorta svelava ai loro sguardi meravigliati la bellezza del creato e a tale spettacolo il loro cuore erompeva in un canto di gioia:


 
 

"Aurora coelum purpurat Aether resultat laudibus Mundus triumphans iubilat Horreus Avernus infremit"

 
 
Le Lodi erano incentrate sul Cantico di Zaccaria, un profondo ringraziamento al Messia che si era degnato di riscattare il genere umano e di restaurare la creazione celebrata nei Salmi. Terminate le preci, a due a due, cantando la "Salve Regina", gli stessi canonici si recavano ancora nel dormitorio per un breve riposo.

Alle sei la campana li richiamava nel coro per l'ufficio di Prima, che iniziava con le stupende parole dell'inno "Iam lucis orto sidere", un invito a controllare durante il giorno le azioni così da meritare il giusto riposo. Dopo le preghiere proprie del tempo, al venerdì, si teneva l'"Officium Capituli", o Capitolo di disciplina nella sala capitolare: i canonici ascoltavano la lettura del Martirologio e le esortazioni del preposito e poi ciascun ecclesiastico si sarebbe accusato di fronte ai confratelli delle colpe commesse e al termine il superiore avrebbe impartito l'assoluzione generale ed indicato gli uffici settimanali dei religiosi.
All'ora Terza avveniva la celebrazione della messa conventuale, a ricordo della discesa dello Spirito Santo e ad esaltazione della carità: flammescat igne caritas, accendat ardor proximos, come ricorda l'inno "Nunc Sancte nobis Spiritus". Alla fine delle orazioni i canonici si dedicavano al lavoro, sia comune, sia individuale, con impegno ed alacrità; essi ricopiavano i libri liturgici e sacri, coltivavano l'orto, preparavano il cibo ed eseguivano ogni sorta di lavoro manuale.

A mezzogiorno, ora Sesta, le preghiere invitavano i canonici a sopportare con pazienza le fatiche ed i dolori, proprio nell' ora in cui il Messia fu crocifisso. Al termine il refettorio attendeva i religiosi, che avrebbero mangiato in rigoroso silenzio ascoltando le letture. In estate, dopo il pranzo, era previsto un breve riposo, per compensare le ore di sonno notturne, meno numerose per la lunghezza della giornata.


 
 
Alle tre del pomeriggio la campana richiamava i canonici in coro per la recita delle preghiere di Nona, la meditazione era incentrata sulla morte e sulla perseveranza finale o premium mortis sacrae. Ricco di tale riflessione ciascun canonico continuava il lavoro interrotto al mattino e vi si applicava fino alle ore diciotto, quando iniziava il Vespro o Lucernario, dal gran numero di lumi con cui si illuminava la chiesa, simboli di Cristo, la luce del mondo, "aeterna lux credentium" come lo definisce il "Creator alme siderum", recitato insieme con virile soavità, come prescrivevano le Costituzioni.
Nel tempo di Passione si leggeva l'inno antico "Vexilla Regis prodeunt" e in quello pasquale la stupenda poesia di "Ad regias Agni dapes".

Al termine il "Magnificat" permetteva di ringraziare Dio per i beni ricevuti durante il giorno e preparava i canonici alla frugale cena nel refettorio.
 
 
La giornata era conclusa dalla Compieta, per implorare la grazia di una notte tranquilla ed il beneficio di una santa morte: "noctem quietam et finem perfectum concedat nobis dominus onnipotens". Lo stupendo inno ribadisce gli stessi concetti:
 
 

"Te lucis ante terminum Rerum Creator poscimus ut pro tua clementia sis praesul et custodia. Procul recedant somnia et noctium fantasmata hostemque nostrum comprime ne polluantur corpora".

 
 
Ed infine con il cantico di "Nunc dimittis servum tuum" i religiosi imploravano Dio di poter uscire da questa vita nella certezza di aver servito il Messia.
Il concetto della morte, meditato più volte, diveniva reale quando uno dei confratelli passava a miglior vita. Era allora obbligo celebrare tutto l'Ufficio dei morti con la Messa cantata. E così avveniva ancora dopo sette e dopo trenta giorni.
Tutti i sacerdoti erano tenuti a celebrare trenta messe per il defunto, i chierici a recitare l'intero Salterio e i conversi trecento "Pater Noster". Cura ed amore ricevevano dalla comunità gli infermi, assistiti con pazienza e carità; a loro erano somministrate secondo il consiglio del medico le medicine affinchè recuperassero la salute.
In questa attività era possibile esercitare l'umiltà, come anche nel servizio della cucina e in "scopatione domus", cioè nel ramazzare il cenobio.


 
Comunità della Badia di Dulzago